Feudo dei Carafa

Per tracciare un itinerario carafesco non possiamo non trattare, comprendere, toccare i luoghi che per oltre tre secoli videro quali protagonisti della vita politica, così come dì quella militare, religiosa, economica, letteraria e sociale, i rappresentanti di un illustre casato meridionale che nella seconda metà del XV sec. si videro assegnare dal sovrano aragonese Ferrante, come feudo, un vasto territorio con città, terre e casali.
Era consuetudine classificare i centri abitati con la denominazione di città, quando un luogo rivestiva una certa importanza economico-amministrativa e lo stesso poteva contare su un certo numero di nuclei familiari o meglio fuochi. Le località che, subito dopo, seguivano per ordine di importanza, erano le ‘terre’ e, infine, i casali che rappresentavano le strutture amministrative più semplici e assoggettate alle città più vicine.
Il feudo dei Carafa fin da subito poté contare sulla città di Castelvetere (l’odierna Caulonia), le terre di Grotteria, di Roccella e Siderno e i casali di Martone, Mammola, San Giovanni di Gerace, ai quali ultimi più tardi si aggiunsero Fabrizia, casale nato in piena età carafesca, che appunto dal principe Fabrizio prese il nome, e Caraffa del Bianco in cui è palese la derivazione del toponimo. Infatti si sa che verso la fine del XVI secolo tra due nobili famiglie di Sant’ Agata sorsero dei contrasti incolmabili, tant’é vero che una di esse, quella dei Sotira non solo ebbe la protezione del principe di Roccella, ma ottenne da quest’ ultimo un suo territorio su cui ubicare un nuovo centro chiamato Caraffa in onore di tanto benefattore.
Fu Jacopo Carafa, fedele ed esperto soldato, che per i “servigi” fatti al suo signore ricevette l’ importante investitura nell’ anno 1479 dell’ era cristiana.
Jacopo appartenne alla famiglia Carafa della Spina, nobile casata di antica origine che trovò in Biagio Aldimari uno dei suoi maggiori cantori. Infatti, fu Carlo Maria Carafa Branciforte, principe di Butera e noto letterato, ad invitare “il regio consigliere’ Don Biagio Aldimari a scrivere una “Historia genealogica della famiglia Carafa”. Siamo alla fine del XVII sec. (1691) e i Carafa vivono il momento più glorioso e più potente della loro plurisecolare storia, quindi sempre più vìvo sì fa il bisogno di magnìficare degnamente l’ ascesa di sì fulgida stella.
Lo storico napoletano non deluse le aspettative del suo insigne committente e fin dalla pagina, oggi diremmo “Home Page”, che doveva introdurre i tre volumi, evidenziò gli intenti celebrativi. Il frontespizio presenta una stampa con dovizie di particolari molto interessanti. Il disegno, chiuso nella sua parte inferiore da una sorta di pradella con su inciso il titolo dell’ opera, il nome dell’ autore e dell’ editore, 1′ anno e il luogo di pubblicazione, ci presenta una sontuosa sala absidata con arco trionfale. Quest’ ultimo culmina con due eleganti obelischi e nelle lunette è impreziosito da nastri legati a nodi d’ amore.
La fascia perimetrale del sontuoso ambiente è suddivisa da dodici lesene, poggianti su basi alte e decorate e terminanti con capitello composito-toscano su cui poggia un architrave dorico, suddiviso in metope e triglifi. La sala viene raccordata da una semicupola ripartita in vele. Negli spazi intercolumni sono poste mensole aggettanti con su statue dì divinità, mentre dai sovrastanti cornicioni scendono chiusi in ghirlande dei medaglioni con i ritratti dell’illustre prosapia.
Sospesi su soffici nuvole al centro dell’arco a tutto sesto appaiono due Glorie tenenti in una mano delicati ramoscelli di palme, mentre con l’altra mano sorreggono la larga fascia dello zodiaco (forse un riferimento agli interessi di occultismo del principe o meglio la predestinazione alla sua futura grandezza ). Il tutto viene dominato da un occhio vigile, chiuso all’ interno di un perfetto triangolo inscritto al cerchio che prende forma da sedici stelle. Evidente appare la benemerenza divina: l’ occhio di Dio, Uno e Trino, che governa l’ Universo a partire dal ciclo delle stelle fisse. La parte centrale della concettuosa incisione viene occupata da un imponente scannello sulla cui cimasa si erge in modo regale e trionfante l’insegna araldica dei Carafa della Spina. Lo stemma, incorniciato in eleganti volute di foglie d’acanto, è sormontato dalla corona principesca e su di essa un trionfo di galeri cardinalìzi, dì mìtrìe, dì pastorali, dì messali, croci latine, croci greche sovrastati tutti dalla croce tripla o papale e da un possente triregno con la grande croce di Sant’ Andrea.
Sono tutti gli onori ecclesiastici della famiglia che seppe annoverare importanti vescovi, illustri patriarchi, potenti prelati, noti abati, eminenti cardinali, nunzi apostolici e il più famoso di tutti Gian Pietro Carafa, assurto al trono di Pietro con il nome di Paolo IV, oltre ad acquisire con un’accorta politica matrimoniale altre due ascendenze pontificie: Alessandro VI, Borgia, e Paolo V, Borghese. Ai religiosi bisogna unire la fama militare ed infatti alla base del piedistallo fanno cumulo: cesellate armature, elmi piumati, possenti scudi e le numerose bandiere prese ai valorosi nemici; completano la raccolta una serie di corone marchesali, cuffie di grande ammiraglio, una croce di Malta e il copricapo del gran maestro dell’ordine gerosolimitano. Infine fra tanti trofei fa bella mostra di sé il collare del Toson d’ oro, ambita onorificenza spagnola di cui seppero insignirsi vari personaggi della famiglia principesca. L’incisione rappresenta, a ragione, una mirabile sintesi della storia dei Carafa che in Grotteria ebbero uno dei primi possedimenti in Calabria Ultra.
“Grotteria con l’esposizione ad oriente ed a mezzogiorno sta situata alle falde di una amena abbenchè ripida collina, la quale si dirama dalla catena degli ultimi Appennini sul versante del Jonio”. Con questa delicata introduzione, Domenico Lupis-Crisafi, lo storico del noto centro della vallata del Torbido apre la sua “Cronaca dì Grotteria” pubblicata alla fine del XIX sec.. Lo studioso locale continua nella sua descrizione ora esaltando la salubrità dell’ aria e la esatta ubicazione dell’ importante “Terra” sulle colline prospicenti la costa dell alto Ionio reggino: “L’ aria che si respira, più che salutare, si potrebbe dire balsamica, sia per la vegetazione rigogliosa delle vicine campagne, che per la mite temperatura quasi sempre eguale e costante. Il suo territorio si parte dalla giogaia de Monti di Croce-Ferrata, che separano la provincia di Reggio da quella di Catanzaro (oggi Vibo Valentia), e che si distendono dolcemente fino al mare, in prossimità di Gioiosa Ionica e di Siderno Marina”, ora fornendoci notizie sulle sue antiche origini “…ad ogni pie sospinto non vede che ruderi di antichi monumenti ed avanzi di vetuste città…” e quindi la sua mitica fondazione ad opera di Idomeneo, re di Creta “che approdando in questi lidi edificò il Castel Minerva” da cui Athenaeon e Grokteau si giunge a Grottaurea, Grottaria e infine Grotteria. Lo studioso, da vero erudito del suo tempo, dedica un’ intera parte della sua avvincente opera alle origini micenee e greche della città che lo vide nascere. Lo stesso, cultore numismatico, porta come prove diverse monete reperite in loco per dimostrare una tesi che se ha uno scarso fondamento scientifico, è pregna di tanto spirito di campanile da convincerci sulle origini classiche di Castel Minerva, che in epoca romana si trasformò in Crjpta-aurea, per la presenza di miniere aurifere, secondo quanto dice lui stesso, quando afferma “questa nuova denominazione… non ha nulla dì comune con la precedente”.
Seconda parte
Il Lupis-Crisafi continua a fornirci interessanti dati sul lunghissimo periodo dei secoli bui che nelle epoche fecero sentire la loro presenza in Grotteria (Ruffo, Loffredo, Aragona de Ajerbe, Caracciolo, Correale) fino all’ avvento dei Carafa. Quest’ultimi salvo per il lasso di tempo che va dal 1559 al 1628 tessero l’importante baronia, fino a quando nel 1806 con le leggi eversive si chiuse il Feudalesimo.

Fu con Vincenzo Carafa, figlio di Jacopo, che la famiglia si fregiò del titolo “Conte di Grotteria”. Testimonianze della presenza dei diversi feudatari sono presenti nei ruderi del vecchio castello e nell’ architettura della chiesa di S. Maria “la Cattolica”.
Il Castello, i cui ruderi, esigui e non privi di fascino, sovrastano l’agglomerato di case dai bei portali in pietra adornati da maschere apotropaiche contro le varie forme di malocchio, è sorto in epoca remota. Con molta probabilità risale al perìodo normanno o ad un’ era più antica (età bizantina), ma la struttura, per quel poco che ci è consentito di analizzare, che ricevette modifiche in ogni epoca, oggi conserva la forma data dai Carafa. Si sa che all’inizio del XVI sec. gli eserciti si dovettero fornire di una nuova artiglieria che nella polvere da sparo, da poco scoperta, trovava la sua giustifìcazione. Non si ha più bisogno di cortine alte e sottili di epoca normanna, ma sarà la grossezza di mura che nelle larghe scarpate e nei maschi tozzi e possenti sapranno contrapporsi ai forti colpi di cannoni. Quindi tutta l’età aragonese e, per Grotteria, l’epoca dei Carafa assisterà al riordino o meglio al riadattamento dei vecchi manieri. Intorno ad esso, D.Cogliandro così scrive: “La fabbrica medievale sorge su un colle ad ovest dell’abitato in posizione dominante a controllo della via che collegava il mare Ionio al Tirreno…Le mura del castello hanno un perimetro irregolare che segue l’orografia del colle. Il circuito murario è interrotto da due torri circolari e presenta un mastio circolare ìsolato. Dì tutto il complesso sono leggìbili le torri e i resti della ghiera del portale d’ingresso con pregevoli conci squadrati e bugnati. Due feritoie si aprono nella torre semicircolare a Nord dove il muro piega ad angolo e il passaggio è mediato da una torre circolare. Il mastio centrale, di dimensioni maggiori, presenta resti di un coronamento merlato; Il portale, crollato recentemente, era ad arco a tutto sesto, con cornici di granito”. Sul vecchio maniero sempre sulla “Cronaca di Grotteria” si legge come una tradizione orale riferiva che “…nella torre superiore vi esisteva un’antica iscrizione, composta di due soli versi in lingua greca o latina, il cui senso tradotto in volgare suonava così:

“Fui da Febo edificato
Pria del verbo umanato.”
oppure l’altra versione:
“Da Pallade fondato
Pria che fosse il divin Verbo incarnato.”

Veramente romantica appare tale storiella ed ancora una volta lo storico di Grotteria si serve di essa per dimostrare come il centro jonico sia il risultato di un sincretismo religioso tra un culto pagano che nel tempio di Atena traeva la sua forza e quello cristiano che nella Grotta aura trova la sua prima denominazione. Certamente da quanto riferisce V. Najmo in un suo lavoro “Gli apprezzi dello Stato Carafa di Roccella (1726)” il vecchio castello iniziò la sua decadenza fin dagli ultimi anni del XVI sec. e dai primi decenni del XVIII sec. fu lasciato al suo destino. “Tuttavia, occorre rilevare che almeno fino al 1710 il castello aveva esercitato la sua funzione politico-amministrativa giacché in quell’epoca risultava sede di carceri civili e eriminali” (V.Najmo).

Per una stradina che si inerpica, a tratti a scalinata e a vari ripiani, dalla strada carrozzabile si arriva sulla piazzuola dove si erge la suggestiva fabbrica della Matrice. Il tempio assieme alla chiesa di San Domenico, già annessa all’omonimo convento in piazza Palermo, il santuario del Crocefisso all’ imbocco del paese per chi viene da Gioiosa J. e la chiesa di San Nicola de Francò, dall’ elegante facciata barocca, posta in posizione più alta costituiscono il patrimonio sacro all’ interno del centro collinare. La Matrice, anche se più volte ricostruita, è di antichissima origine e diversi sono i documenti che la riguardono; su uno di essi riportato alla luce da Vincenzo Najmo, lo stesso così scrive: “La Matrice … detta anche la ” Cattolica”, può essere considerata uno dei più antichi luoghi di culto dell’ intera vallata del Torbido. La chiesa…era protopapale e dedicata alla Madonna Assunta… Il primo riferimento documentato alla chiesa, sebbene indiretto, risale all’ anno 1232 e si trova in un atto in lingua greca del monastero dì S. Stefano del Bosco, edito dal Trincherà…Un secondo riferimento è contenuto nelle collectoriae dell’ anno 1328 quando un… presbitero Nicola,…protopapa della città, paga un tareno e cinque grana di decima. Una ulteriore menzione di un rettore della Matrice grotterese risale all’anno 1455, in occasione di un atto di conferma di una transazione fra la Mensa vescovile di Gerace ed i fratelli Troilo e Polidoro Caracciolo, figli del conte geracese Ludovico.” E’ sempre V. Najmo, nel medesimo artìcolo, a ricordare come il sacro edificio ìn parte crollato venne riedificato in pieno periodo carafesco “…
Durante l’ amministrazione di Giovanni de Arena, e precisamente nel periodo compreso fra il 1535 ed 1540 l’antica chiesa, probabilmente in gran parte crollata, venne demolita per far posto alla nuova i cui lavori di costruzione risultavano iniziati nel 1541. Due anni più tardi era stato ultimato il campanile. Terminata la ricostruzione dell’ edificio, l’ interno venne progressivamente adornato da un gran numero di altari e cappelle istituiti su iniziativa delle principali famiglie nobili e borghesi della città: Striveri, Zolea, Angilletta, ecc.”. Oggi da poco restaurato il sacro complesso, nel suo interno diviso in tre navate, conserva due importanti dipinti, uno con Madonna, Bambino Divino e Santi attribuito all’ arte devozionale dì Fabrìzìo Santafede e l’altro di scuola riberesca con Gesù in Croce e Santi.
Sempre all’ interno della chiesa fanno bella mostra di sé pregevoli affreschi dell’ artista contemporaneo Nik Spatari. In essi il noto pittore ha dato prova della sua arte raffigurando momenti della vita di Cristo. Un organo dell’ottocento posto in alto sulla cantoria, ricorda come lo stesso fu dono della devozione di emigrati. Infine due sculture lignee dell’ artista locale G. Cavaleri completano l’ arredo sacro. Le statue raffigurano San Pasquale Bajlon e San Francesco da Paola, entrambi esempi mirabili di cui l’ artista seppe dare prova di sé nel corso del XIX secolo non solo nei vari centri della vallata del Torbido.
Sottostante la piazza su cui si erge la Matrice trovasi ubicata la Cappella della Concezione. Detto luogo sacro, da poco restaurato, con molta probabilità fu la cripta della chiesa soprastante e nel suo interno racchiude un’ interessante statua litica. La scultura in pietra tufacea ci presenta la Madonna con Bambino e subito appare la sua caratteristica dì opera arcaica. Tale luogo da quanto riferisce Domenico Lupis Crisafi, nella sua opera ricca di notizie interessanti sul nostro centro, fu caro alla famiglia Carafa e infatti fu abbellito e godette dei benefici del jus patronato della principesca famiglia di Roccella. Nella vicina chiesa del Crocefisso è l’ importante scultura di Gesù in Croce che ancora oggi desta l’ attenzione più profonda del grotterese devoto. La statua in legno è oggetto di particolare devozione da parte dei fedeli da quando un miracolo pose fine ad una catastrofica alluvione.
Correva l’ anno 1745 e teneva la baronia Gennaro Maria Carafa, X° conte di Grotteria, e da più giorni una insistente e devastante pioggia stava mettendo in ginocchio ogni persona, quando all’ improvviso dal convento dei cappuccini si mosse una processione con il Crocefisso in testa “…dietro di che si chiusero le cateratte del cielo ed il tempo sereno ritornò” (Lupis Crisafi).

ITINERARIO CARAFESCO
(di Gustavo Cannizzaro)

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